In questi giorni si discute la nomina del nuovo Garante sulla Privacy. Si è fatto un nome che non pronuncio, perché mi son dato la regola di ignorare gli impresentabili.
E' certo opportuno parlarne, ma ancor meglio sarebbe mettere in discussione l'istituzione stessa, che allo stato attuale è una zavorra per il Paese.
Ne ho scritto (con Alberto Vannucci) in ("Lo Zen e l'arte della lotta alla corruzione"):
"In Italia la normativa sulla privacy, o la lettura che di essa viene data, è sistematicamente a favore di ipotetici diritti alla riservatezza e a danno dell’interesse pubblico al quale raramente si consente di prevalere. Responsabile di questo stato di cose è, in buona misura, il Garante per la protezione dei dati personali, un’Autorità amministrativa indipendente istituita nel 1996 (dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675). Si registra oggi un’alleanza di fatto, per quanto probabilmente inconsapevole, tra il Garante, che con frequenti interpretazioni della normativa tali da rendere il diritto alla privacy un presidio spesso invalicabile ha svilito l’interesse pubblico, e le componenti più retrive e oscurantiste all’interno delle amministrazioni pubbliche italiane. Queste ultime invocano sistematicamente la presenza di ostacoli - veri o presunti - frapposti dalla normativa e dal Garante, e così negano al pubblico informazioni cruciali per monitorare le amministrazioni pubbliche e, guarda caso, l’azione dei suoi dirigenti. Grazie a questi, esse hanno vinto la loro battaglia: la governance pubblica è, in Italia, tra le più impenetrabili allo sguardo indagatore del pubblico.
Non siamo in grado di descrivere nel dettaglio le misure necessarie per rimediare all’aberrazione che in Italia è diventata la cosiddetta tutela della privacy dei cittadini. Si può tuttavia immaginare un rovesciamento della situazione attuale: ogni volta che siano coinvolte amministrazioni pubbliche, l’interesse pubblico a conoscere dovrebbe prevalere sempre, con l’esclusione di un numero limitato di casi da specificare. Inoltre, la tutela della privacy in Italia sembra concentrarsi su aspetti procedurali e routinari, più semplici da trattare per una istituzione come il Garante, poco dinamica e, anche in questo caso, caratterizzata da una cultura di stampo formalistico-giuridico, trascurando una serie di problemi emergenti e che dovrebbero molto preoccupare. Pochissimo si dice e nulla si fa riguardo alla minaccia alla privacy che deriva dal conferimento spesso inconsapevole di immense quantità enormi di dati sensibili alle grandi piattaforme di Internet, Facebook in primis. Nel dibattito pubblico si è finito per dimenticare in fretta il sospetto, che il “caso Snowden” ha mostrato essere realistico oltre ogni dubbio, che i nostri dati e le nostre comunicazioni per via elettronica non siano affatto segreti.
Forse aiuta a interpretare la linea di condotta seguita dal Garante una considerazione che ci sembra valere per gran parte dell’alta dirigenza pubblica statale, che è la seconda meglio pagata tra i Paesi Ocse nella prima fascia (una media di 257mila dollari annui per pari potere d’acquisto, seconda solo ai 400mila dell’Australia) e la più pagata nella seconda fascia (con una media di 242mila dollari). Stipendi elevati dovrebbero indurre incorruttibilità e quindi indipendenza, ma stipendi troppo elevati - soprattutto nel caso siano slegati da competenze e risultati - costituiscono una rendita desiderabile dagli effetti perversi. Per esempio, consigliano un manzoniano “sopire, troncare” nei confronti di qualunque velleità innovatrice, che rischierebbe di pregiudicare un equilibro così favorevole per chi occupa quelle posizioni di immeritato privilegio. Valga ricordare che il compenso annuale del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali è pari a 240mila euro, e 160mila euro ricevono gli altri tre componenti.
Ma noi, che fortunatamente non siamo gravati da un tale fardello, in piena libertà possiamo raccontare quale tipo di trasparenza vorremmo, e in che modo ottenerla."
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