Nell'ultimo mese ho letto due libri tra loro casualmente correlati. Il primo: The Buddhist Tradition in India, China and Japan di William Theodore De Bary.
Trovo certo buddismo a me congeniale. Per esempio l'idea Chan, e poi Zen, che non si deve dire, ma lasciare comprendere intuitivamente, e che affermando qualcosa, in un certo senso la si nega. E' un'idea molto sofisticata e io la pratico da sempre, nel senso che non l'ho mai praticata, insomma, fate un po' voi. Il libro mi ha poi portato a riflettere sul concetto buddista del nulla e dell'irrealtà del cosmo. Che alla fine, per come la vedo io, porta necessariamente a una scelta esistenziale ludica. Se nulla esiste, come trattenersi dal ridere? O almeno, da un sorriso, forse buddista. Ne risulta quell'infanzia (o adolescenza, nei casi più evoluti) infinita che ben conosciamo. Infinita nel senso del Saṃsāra buddista: se ci si trattiene a due passi dal nirvana, a campare si tira per sempre. Non era questo il punto, né tantomeno quell'obiettivo buddista che non ho ancora introiettato, ma pazienza.
Al concetto di irrealtà si collega il secondo libro che ho letto, un classico della letteratura sociologica: The social construction of reality di Thomas Luckman e di Peter Berger. La realtà è una costruzione sociale, per cui la fatticità di quel che ci circonda è una finzione. Sto semplificando per non farla lunga: il libro è affascinante e molto denso.
Si tratta di teorizzazioni che corroborano una certa mia inclinazione. Non ho mai creduto veramente nella realtà della realtà, che nella migliore delle ipotesi è comunque negoziabile. E anche per questo sono un ottimista: penso che, scartando, la realtà si possa sempre prendere di lato. Guardi altrove, lei si distrae, e tu passi.
Ma a volte la realtà scalcia ed è molesta. Non le si deve dar corda, e quando la si incontra ci si deve subito allontanare. Rispettosi, e con un sorriso buddista stampato in faccia. E' per questo che, da ieri, ho deciso di passare le mie giornate a lavorare nella sala lettura di una biblioteca.
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