sabato 6 giugno 2020

Decostruendo la logica spaziale

Ho terminato di leggere The Spatial Logic of Social Struggle di Nikolaus Fogle. E' un bel libro ed ha abbattuto due piccioni. Primo, il mio interesse per le rappresentazioni spaziali, dovuto forse al mio ragionare che è perso nelle distese intergalittiche situate tra Giove e Andromeda. Secondo, il tentativo di conoscere meglio il pensiero di Pierre Bourdieu, al quale nell'ultimo anno ho dedicato abbastanza tempo.
Il quinto capitolo del libro è dedicato a un'analisi critica dell'architettura decostruttivista (la fase dopo il postmoderno: quel che è andato di moda nell'ultimo ventennio, da Koolhas a Eisenman, passando per le forme di Gehry e gli spazi della Hadid). E' vero, essa non incide nei rapporti di dominanza, e senz'altro proporre una via d'uscita basata sugli straniamenti del decostruttivismo filosofico francese al massimo è un trucco salottiero - salottiero, come lo sono i decostruttivisti francesi. Ma gli architetti lavorano per chi li può pagare: ci si può attendere altro? 

Vedo poi un rapporto con gli straniamenti in campo linguistico di Viktor Šklovskij, di cui parla Paolo Nori nel suo bel "I russi sono matti" (Utet, 2019). Šklovskij, del resto, apparteneva all'ambito dei costruttivisti sovietici, ai quali i decostruttivisti si richiamano: questo penso mentre bevo un caffé nella tazza adornata dallo "spezza i bianchi col cuneo rosso" di El Lissitzky (nella foto impossibile qui sopra), perché anche il caffé deve essere a tema col ragionamento. 

 Cito da Nori: 

"Quando prendo in mano una penna per la milionesima volta, non mi accorgo nemmeno del peso, che ha la penna, non mi accorgo nemmeno di che materiale sia fatta"

Con l'arte, "che si serve di due procedimenti: lo straniamento delle cose, e la complicazione della forma, con la quale si tende a rendere più difficile la percezione e a prolungare la durata", si può invece guardare una penna con uno sguardo diverso e quasi con sorpresa e meraviglia. E questo gli architetti decostruttivisti tentano coi loro edifici, per uccidere quel "senso di distrazione" nei confronti dell'architettura che ci circonda di cui scriveva Walter Benjamin.

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