Una parola inglese si aggira per l’università italiana: “governance”. Si è molto diffusa negli ultimi anni e l’uso frequente merita attenzione per quanto rivela.
Qualche esempio di questa moda linguistica. Un rettore recentemente ha scritto al corpo docente che ha “condiviso con la governance e con il direttore generale gli orientamenti che seguiremo per il futuro”. Si sente inoltre dire che una certa scelta riflette l’”orientamento della governance”, o che una professoressa, essendo delegata a qualcosa, fa parte della “governance di dipartimento”. Nell’università italiana, con governance si indicano quei professori che hanno responsabilità di governo di qualche tipo, vuoi in seguito a elezione (per esempio, i direttori di dipartimento, i membri del senato accademico, sino al rettore) vuoi in seguito a delega (per esempio, i prorettori, che sono nominati dal rettore).
È un’adozione dall’inglese non necessaria, perché la nostra lingua dispone del termine “dirigenza”, di altri affini, e di duttilità abbondante per esprimere tutte le sfumature del comando, del governo, del potere, e dei meccanismi del suo esercizio. Con quale severità considerare il caso, nei termini sin qui descritti, dipende dall’opinione che si ha circa la responsabilità pedagogica dell’università, in particolare rispetto al buon uso della lingua.
Ma è interessante altro: in inglese “governance” non corrisponde a “dirigenza”. Si riferisce ai modi di governo di un’entità, non alle persone che concretamente governano. Ad esempio, si può dire che una certa governance è più o meno orizzontale, inclusiva, o trasparente. Mai che un primo ministro “appartiene alla governance” di un Paese.
Un uso simile risulterebbe incomprensibile all’estero. Infatti, a cercare su internet l’espressione “belongs to the governance”, tra i pochi risultati che emergono ne troviamo solo uno che corrisponde all’utilizzo affermatosi da noi: si legge nella versione in inglese del curriculum di un tal professore di un'ateneo nordestino. È un ingegnere, e potremmo allora ironizzare dell’ingegnosa università italiana che si è inventata una “governance” tutta sua. Per il gusto di affondare un colpo, potremmo attingere alla stagione d’oro del cinema italiano, menzionando l’Alberto Sordi dell’”Americano a Roma” che si crede poliziotto di Kansas City, ma è solo un tale Nando Mericoni che parla un inglese inventato: “lui vuol far l’americano”, cantava, in anni simili, Renato Carosone. Rimanendo al cinema, secondo Nanni Moretti chi parla male, male pensa, lasciando intendere che errori linguistici riflettono una confusione di pensiero più profonda. Tale critica sarebbe facile, ma non nobile, come non lo è il trarre soddisfazione dall’ignoranza altrui. Inoltre, i professori universitari italiani non sono generalmente ignoranti e conoscono l’inglese abbastanza bene. E però “governance” è un termine specialistico, anche se molto orecchiato: questo spiega la possibilità che, anche all’università, si sia potuto affermare un suo significato travisato.
Constatare una possibilità è una cosa; spiegarne le ragioni, un’altra. E per tentare di spiegare, è necessario fare un passo indietro per osservare lo sfondo, il contesto insomma in cui a un certo punto si è preso a dire “governance” al posto, per esempio, di “dirigenza”. L’università vive una lunga fase avviata dall’ultimo tentativo di riforma maggiore, la “legge Gelmini” del 2010. Essa tentò di ovviare al tradizionale autogoverno accademico, giudicato inefficace, adottando forme di direzione più professionali, che in ogni ateneo avrebbe dovuto presidiare un potente consiglio di amministrazione. La riforma ha fallito e il vecchio autogoverno è rimasto, ma cambiando natura.
I consigli di amministrazione contano poco, e in 60 atenei italiani (su 61) sono presieduti dallo stesso rettore, sia a rifletterne la centralità, sia a suggellare il fallimento del legislatore. Le uniche elezioni contese sono per il rettore stesso, che con un mandato che la legge fissa a ben sei anni è molto potente dentro l’università, ma risulta debole fuori. Non è infatti rieleggibile, e ambizioni future - carriera politica o incarichi esterni ben retribuiti - consigliano una tessitura esterna attenta.
Prevalgono forme di cooptazione, eventualmente a seguire elezioni in cui raramente il numero dei candidati supera il numero degli eletti. Segue che i professori, soprattutto se hanno qualche responsabilità istituzionale, vivono una dissonanza cognitiva che risolvono come possono. Il professore neoeletto al senato accademico, candidato unico, desidera ringraziare pubblicamente gli elettori “per la fiducia accordata” senza sentire imbarazzo. Allo stesso tempo, il professore di scienze politiche, che con l’occhio destro ha studiato la relazione che sussiste tra la concorrenza elettorale e la qualità della democrazia, desidera evitare al sinistro il dispiacere di constatare che, nel proprio ateneo, la democrazia si accende, e brevemente, solo ogni sei anni.
In questa situazione, l'utilizzo di “governance” accorre in soccorso, perché utilmente nasconde, ed è un esempio di quel che George Orwell chiamò “bipensiero”: la capacità psicologica (e il desiderio) di accettare due credenze opposte come vere. Parlare di “dirigenza” porterebbe alla luce, attirando l’attenzione sulla pratica di governo e sulla verticalità del potere: chi dirige sovrasta coloro che sono diretti. Non così con governance, che è termine antico ma dalla popolarità recente, al punto che nel corpus dei libri di Google ha raggiunto per frequenza d’uso la parola “democracy”. E nel diffondersi ha assunto una certa sfumatura. Indica il modo del governo qualunque esso sia – per esempio si può parlare della governance di una dittatura – ma oggi tende ad accompagnarsi a descrizioni desiderabili ai più, e si parla di “governance inclusiva”, “partecipativa”, “sostenibile”, “equa”, eccetera. A causa di tali associazioni frequenti, parlando di governance e punto si lascia intendere che questa è orizzontale, moderna, e manageriale: esattamente come il legislatore richiedette, ma a un’università maestra in quel che un noto studioso (pensando a certe tribù asiatiche) chiamò “l’arte di non farsi governare”.
Se la “governance” è più a la page rispetto al governo di dirigenti obsoleti abbarbicati sulle vette del potere, questo non solo si spersonalizza ma diventa come inafferrabile. Infatti, se una certa scelta è “orientamento della governance”, si sottintende che è incontestabile, perché quel che è inclusivo, equo, sostenibile, moderno e manageriale, non può errare. E a ben vedere, per questa via, del potere si chiude il cerchio, se esso realizza un desiderio che non è moderno, ma antico e come primordiale: l’irresponsabilità.
Note
Il dato che riguarda i consigli di amministrazione delle università italiane è tratto da Giovanni Barbato, Giliberto Capano e Matteo Turri. Un bilancio della riforma Gelmini. Solo in un cda su 61 il presidente non è rettore. Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2024. Il “noto studioso” è James Scott, con riferimento al suo “L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico” (Einaudi, 2020). Ringrazio gli amici (tutti anonimi e nessuno dirigente) che, avendo commentato una prima versione di questo scritto, mi hanno permesso di migliorarlo.
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