Lo stanco rito degli appelli ai partiti e ai candidati in vista delle elezioni ha partorito Democrazia 2.0.
Si pone una questione prioritaria, i "dati aperti". Non è necessario applaudire: l'Italia è in ritardo e invocarli è anch'esso diventato un rito. Più utile sarebbe sfidare i futuri governanti con richieste concrete, la cui realizzazione sia facilmente verificabile. Per esempio: "si chiede che l'Istat, entro sei mesi, metta a disposizione i suoi dati con modalità paragonabili a quanto già sta facendo la Banca Mondiale".
Le proposte 2, 3, 4, invece, sono il frutto di un imbarbarimento culturale. Per esempio, la 2: "dare pubblicità a tutte le riunioni politiche di vertice in live streaming e successiva archiviazione online, perché chi si candida alla guida del Paese non può e non deve avere niente da nascondere ai cittadini". Chiudo gli occhi e vedo le riunioni di Putin abitualmente trasmesse dalla televisione di stato russa.
Democrazia significa istituzioni democratiche. Le tecnologie sono "abilitanti", non "causanti". Forse dovrei spiegarmi meglio, ma invece no: dovrebbero saperlo bene persone sicuramente istruite, alcune delle quali fanno politica da decenni (vedasi, tra i firmatari, Vincenzo Vita). Sarebbe come spiegare una barzelletta: è sempre un errore.
Conosco diversi dei firmatari da molti anni. Gli innovatori digitali italiani sono al capolinea, anzi, non sono mai partiti. Mi ci metto anch'io, visto che anch'io c'ero: abbiamo fallito. Una proposta: bandiamo il termine "2.0" e rimettiamoci a studiare, iniziando, con umiltà, da un buon manuale di scienza della politica.
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