martedì 31 marzo 2020

Mito e cerimonia ai tempi del coronavirus

"Nasce la task-force tecnologica, 74 esperti contro il coronavirus L'annuncio della ministra per l'Innovazione Paola Pisano. Allo studio un app per il contact-tracing. Huffington Post, 31 marzo 2020."

Han costruito una specie di Assemblea costituente per metter mano a un problema che richiedeva non un inutile organismo pletorico, ma disposizioni esecutive; non ora, ma un mese fa.

Consiglio due letture. La prima è un classico della letteratura sociologica: "Institutionalized organizations: Formal structure as myth and ceremony." (di Meyer e Rowan). La "task-force" come mito e cerimonia; si forma perché è considerata appropriata, legittima e legittimante. E la scelta del termine inglese nobilita: una task-force è senz'altro da preferirsi a una "commissione", nel mondo di riferimento della Ministra Pisano.

Poi, l'idea del "no-business meeting", di quella gran penna che fu John Kenneth Galbraith. Ricordavo questa citazione, da "The Great Crash of 1929", di cui il Presidente Hoover verrà ricordato come uno dei grandi colpevoli. La chiusura è quasi alla maniera di Tacito.

"Yet to suppose that President Hoover was engaged only in organizing further reassurance is to do him a serious injustice. He was also conducting one of the oldest, most important—and, unhappily, one of the least understood—rites in American life. This is the rite of the meeting which is called not to do business but to do no business. It is a rite which is still much practiced in our time. It is worth examining for a moment.
Men meet together for many reasons in the course of business. They need to instruct or persuade each other. They must agree on a course of action. They find thinking in public more productive or less painful than thinking in private. But there are at least as many reasons for meetings to transact no business. Meetings are held because men seek companionship or, at a minimum, wish to escape the tedium of solitary duties. They yearn for the prestige which accrues to the man who presides over meetings, and this leads them to convoke assemblages over which they can preside. Finally, there is the meeting which is called not because there is business to be done, but because it is necessary to create the impression that business is being done. Such meetings are more than a substitute for action. They are widely regarded as action.
   The fact that no business is transacted at a no-business meeting is normally not a serious cause of embarrassment to those attending. Numerous formulas have been devised to prevent discomfort. Thus scholars, who are great devotees of the no-business meeting, rely heavily on the exchange-of-ideas justification. To them the exchange of ideas is an absolute good. Any meeting at which ideas are exchanged is, therefore, useful. This justification is nearly ironclad. It is very hard to have a meeting of which it can be said that no ideas were exchanged.
   Salesmen and sales executives, who also are important practitioners of the no-business gathering, commonly have a different justification and one that has strong spiritual overtones. Out of the warmth of comradeship, the interplay of personality, the stimulation of alcohol, and the inspiration of oratory comes an impulsive rededication to the daily task. The meeting pays for itself in a fuller and better life and the sale of more goods in future the President was clearly averse to any large-scale government action to counter the developing depression. Nor was it very certain, at the time, what could be done. Yet by 1929 popular faith in laissez faire had been greatly weakened. No responsible political leader could safely proclaim a policy of keeping hands off. 
   The no-business meetings at the White House were a practical expression of laissez faire. No positive action resulted. At the same time they gave a sense of truly impressive action. The conventions governing the no-business session insured that there would be no embarrassment arising from the absence of business. Those who attended accepted as a measure of the importance of the meetings the importance of the people attending. The newspapers also cooperated in emphasizing the importance of the sessions. Had they done otherwise they would, of course, have undermined the value of the sessions as news.
   In recent times the no-business meeting at the White House—attended by governors, industrialists, representatives of business, labor, and agriculture—has become an established institution of government. Some device for simulating action, when action is impossible, is indispensable in a sound and functioning democracy. Mr. Hoover in 1929 was a pioneer in this field of public administration.
   As the depression deepened, it was said that Mr. Hoover's meetings had been a failure. This, obviously, reflects a very narrow view."

domenica 29 marzo 2020

Nuova tratta Ryanair



E poi è appena atterrato a Roma Ciampino il Volo Ryanair che era partito da Roma Ciampino.

Avrà avuto i suoi buoni motivi, ma arrivati a questo punto io credo a quel che mi pare.

Il pilota è scappato sulla pista, è salito, e ha messo in moto e spinto a manetta, urlando in preda a una specie di orgasmo.

Ora lo stan portando via legato, ma lui sorride felice.

Palloni di passaggio



Fa impressione osservare l'Italia quasi senza aerei che la sorvolano. Pochissimi collegamenti interni Alitalia, qualche jet privato, e qualche aereo militare - segnato nella mappa, un ATR72 della Guardia di Finanza. E qualche aereo che sorvola, con origine e destinazione lontana.

E così prendono spazio altre creature celesti.



Come questi palloni, a 50 mila piedi di quota, del Progetto Loon. Portano connettività in luoghi remoti. Forse ci si potrebbe aggrappare, per un passaggio.

sabato 21 marzo 2020

Il “modello ping-pong”: perché col coronavirus stiamo sbagliando

"10. Chiusura al pubblico di arenili in concessione e liberi, aree in adiacenza al mare".
Ordinanza del Presidente della Regione Emilia-Romagna 
Stefano Bonacini, 20 marzo 2020.

"Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, 
o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; 
lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto,
nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, 
si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, 
o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione"
I Promessi Sposi, capitolo XXXII

Il sacrificio di chi è in prima linea, la tanta solidarietà, e anche certa ironia intelligente che ci aiuta a rimanere in casa: al meglio che il Paese sa offrire, in queste settimane si uniscono anche impressioni meno gradevoli, e qualche ricordo dei "Promessi sposi". Ad iniziare da quel dagli agli untori! che è benedizione per governanti spesso inadeguati, e anche per questo bisognosi di un nemico che defletta l’attenzione dai loro errori. Tra questi, uno è grave: pensare che un certo “modello” per forza continui a funzionare quando viene adottato solo parzialmente. Partiamo da una premessa per ogni ragionamento: il virus si diffonde tra persone tra loro vicine, e non se sono distanti.

Dalla Cina all’Italia: un modello ben diverso
In Cina, ampie zone della regione di Hubei, la cui popolazione è inferiore al 5% del totale nazionale, per far fronte all’epidemia sono state quasi completamente chiuse, sospendendo gran parte delle attività produttive. E’ stato possibile perché il resto di quel Paese ha continuato a produrre anche per loro. Viceversa, tutta l’Italia è oggi in una quarantena che è obbligatoriamente parziale: è indispensabile che i supermercati continuino ad essere forniti, e una riduzione ancor più forte delle attività economiche causerebbe danni ben superiori rispetto al virus – sino a pregiudicare, a un certo punto, il funzionamento degli ospedali stessi.
    Tra Cina e Italia vi è quindi una differenza importante. Nel “Modello cinese” vi era un solo luogo di possibile diffusione del virus, l’abitazione: se arrivava, li si fermava. In quello italiano, ve ne sono due: l’abitazione e, per molti, il luogo di lavoro. Arrivato in un’abitazione, il virus rischia di passare a uno o più luoghi di lavoro, e da lì ad altre abitazioni: quello italiano potrebbe essere, insomma, un “modello ping-pong”.
    E’ davvero così? Non sappiamo, perché i dati giornalieri delle nuove infezioni (e ancor di più dei morti) derivano da comportamenti di alcune settimane fa, e tutti speriamo che tra qualche giorno la curva delle nuove infezioni inizi ad appiattirsi per davvero. Questo mostrerebbe che, se “ping-pong” vi è stato, non ha inciso molto. Ma la possibilità del ping-pong, che deriva dalla premessa che la vicinanza tra le persone comporta il rischio di infezione, e non il contrario, mi pare una buona sintesi (estrema e riduttiva di una realtà più complessa, d’accordo) dello scenario peggiore che abbiamo di fronte.

Che cosa si dovrebbe fare e che cosa si sta facendo
Dirigenti responsabili dovrebbero reagire alla situazione come è nella realtà: le città sono oggettivamente quasi vuote e l’obiettivo del “tutti a casa” è stato sostanzialmente raggiunto. Dovrebbero affrontare i punti deboli del modello adottato, per minimizzare il rischio di contagio dove questo è presente: principalmente, nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni. Nel secondo caso, per esempio, favorendo l’occupazione dei tanti appartamenti oggi liberi, per permettere innanzitutto ai lavoratori più a rischio di abitare per alcune settimane da soli. 
    Le autorità dovrebbero leggere i dati a disposizione con attenzione, per affinare la conoscenza degli elementi di rischio di contagio (anche se è difficile, perché i dati sono inadeguati). Dovrebbero indirizzare il dibattito pubblico verso la priorità da affrontare insieme: la riduzione dei rischi maggiori, che si hanno dove la distanza tra le persone è ridotta, non dove è ampia.
    Non si è fatto nulla o quasi di tutto questo. Si è rimasti al modello rigido adottato inizialmente, che si è modificato solo per incremento di dose. Non si sono realizzati progressi nella produzione di dati di qualità, indispensabili per adottare soluzioni mirate e flessibili. Con inasprimenti successivi, si è attirata l’attenzione del pubblico, puntando il dito accusatore, verso comportamenti individuali – come il correre, o il camminare da soli in spiaggia - che non presentano rischi per la collettività, ma qualche beneficio: sia perché se si permette a qualcuno di star bene, è meglio per tutti, sia perché le case, se possibile e in sicurezza, vanno svuotate e non riempite. E il governante saggio sa che, soprattutto in tempi bui, è da stupidi prendersela con chi non fa danni.

A vantaggio di chi?
Se si considera il tempo di incubazione del virus e il decorso della malattia, le nuove infezioni e i morti di oggi derivano da comportamenti di qualche settimana fa. Tra questi, ricordiamo: la “Milano non si ferma”, la folla in fuga alla stazione di Milano, che poteva e doveva essere prevenuta e, a Bologna, la distribuzione di “card cultura” con lunghe file accalcate. Si è detto che l’invenzione di un nemico inesistente è sempre utile per deflettere l’attenzione lontano dagli errori di chi governa. 
    Ma la situazione è grave, e si richiede responsabilità sia a chi governa, sia a tutti noi. Perché lo scenario peggiore non è solo il “modello ping-pong”, ma quel che potrebbe seguirne: se inefficaci, i sacrifici che oggi accettiamo verrebbero contestati. E in quel tragico caso, la dannosa intolleranza che si respira oggi, in un classico meccanismo di azione e reazione, potrebbe alimentare un ben più scellerato eccesso: il “liberi tutti”.

* Ringrazio Giliberto Capano e Enzo Marinari per aver letto e commentato una prima bozza di questo testo 

venerdì 20 marzo 2020

Abbiamo un problema coi dati

Per tre anni (sino al 2018) fui membro della Commissione per la garanzia dell'informazione statistica. Chi ricopre un ruolo istituzionale ha il dovere di essere costruttivo e credo di aver dato il meglio di me stesso (forse, non gran cosa), perché prima di parlare o di scrivere ho sempre contato sino a dieci.

Ora lavoro per l'Autorità nazionale anticorruzione, all'interno di un progetto che ha per obiettivo il calcolo di indicatori di rischio della corruzione. Si richiede l'acquisizione di dati da altre istituzioni - ministeri, Istat, eccetera. Anche in questo caso, cerco di non dimenticare che il mio dovere è di aiutare a fare un passo in avanti - tacendo, quando necessario, ed evitando ogni polemica riguardo a certi evidenti fallimenti nella fornitura di informazioni statistiche, alcuni dei quali osservo trascinarsi irrisolti da molti anni.

Ho scritto altrove che una causa di questo fallimento italiano è da attribuirsi al ruolo nefasto del Garante per la garanzia della privacy. Che però, attenzione, talvolta o spesso fornisce un alibi agli altri attori coinvolti per non fare almeno una parte di quel che sarebbe necessario, così negando informazioni preziose al pubblico, alla comunità degli studiosi, e ad altre amministrazioni.

Qualche tempo fa mi candidai alla presidenza dell'Istat. A me e ad altri venne preferito un candidato molto "politico", in età da pensione e, da quel che si racconta all'Istat, oggi non soverchiamente dinamico nel modo in cui interpreta il suo ruolo - cosa che là dentro a molti certo non dispiace.

Si tratta di temi che sino all'altro giorno sembravano una bizzarria per addetti ai lavori.

Cambio di sipario: sfilano i camion dell'esercito che portano i morti del coronavirus agli inceneritori. Tutti i giorni alle 18 attendiamo i dati della Protezione civile e, guarda un po', osserviamo che non è che ci raccontino molto (si veda per esempio "I dati ufficiali sono un’illusione ottica", di Francesco Costa).

Certo che no. Ci vorrebbero ben altri dati, primo per capire, secondo per meglio contenere la diffusione del virus, e terzo per salvare persone. La prima cosa da fare era mettere in piedi un sistema di rilevazione puntuale, caso per caso, e una politica di condivisione di tali dati perché in tanti li potessero analizzare. E prima di tutto questo, "a monte", ci voleva una (molto) autorevole e franca telefonata al Garante per la privacy che all'incirca dicesse: "A questo giro, vedete di non rompere i coglioni".

Siete convinti ancora che l'informazione statistica sia questione per addetti ai lavori?

giovedì 19 marzo 2020

Se tutti facessero come te

Sino a ieri andavo a correre sui colli, praticamente in mezzo a un bosco e senza mai avvicinarmi a meno di un dieci metri dai pochissimi in giro. Oggi hanno impedito la corsa se non è "nei pressi di casa". Incontrerò più persone, spero che non sputacchino.

Ero un ragazzetto indisciplinato - non terribile ma un po' rumoroso. Alle medie c'era una mia compagna di classe che mi accusava: "se tutti facessero come te" (la situazione sarebbe insostenibile). Può essere che esagerassi, non saprei dire. Ma il "se tutti facessero come te" spesso (non sempre) è un ragionamento fallace.

Conosco una persona che si è trasferita a vivere a Cesena. Se tutti avessero fatto come lei ora Cesena sarebbe un'orrenda megalopoli da sette miliardi di persone. Ma siccome c'è molta varietà in giro, tante scelte individuali non comportano esiti catastrofici, e a Cesena non si è avuto un disastro umano e urbanistico. E a voler correre sui colli siamo in pochi, ma contribuiamo almeno un po' a liberare la città e tanti spazi pericolosamente chiusi.

Infatti, un modello alternativo allo "state in casa" consiste nell'incamminarsi tutti lungo direttrici radiali divergenti. Io, per esempio, in direzione crinale appenninico, a non incontrare nessuno. Certo, non si tratta di un modello realizzabile concretamente, ma è utile considerare che dal punto di vista del contemimento del virus sarebbe migliore, perché massimizzerebbe le distanze.

Ci sono tanti personaggi in giro a cui non par vero di poter puntare il dito verso i comportamenti altrui. Spesso si tratta di brava gente, come nel caso di quella mia compagna. Aggravano il problema: dato che la quarantena dovrà durare, converrebbe chiedere rigore nel mantenere le distanze, senza inventarsi norme più o meno a caso che rischiano di provocare irritazione e rifiuto. E "tutti a casa" facilita la diffusione del virus: in famiglia, allegramente.

Forse brava gente, ma pericolosa, perché contribuisce a un clima sociale sgradevole e pericoloso per il futuro. Perché ci sarà un futuro dopo il virus, no?

PS
Se tutti facessero come me: in questo momento, saremmo sparsi per i monti, e il problema sarebbe praticamente risolto


PPS
Le nuove infezioni che osserviamo oggi si hanno in seguito ai comportamenti di circa due settimane fa. "Milano non si ferma", per esempio, e a Bologna, "grande successo" "per la distribuzione della card cultura" (gente ammucchiata con benedizione delle autorità).

martedì 17 marzo 2020

Um suborno

Mentre son qui, a farmi dei bellissimi viaggi mentali e a progettare fughe più elaborate che da Alcatraz, e scrivo di corruzione, mi è venuto in mente che una volta ne filmai un tentativo (che in realtà fu di estorsione). Il 12 maggio del 2007 stavo viaggiando da Maputo a Inhambane - quasi 500 km lungo la costa, in direzione nord-est: un'intera giornata sulla strada.

Non ricordo come ottenni il passaggio da un'energetica signora portoghese che a Inhambane viveva. Con noi c'era anche una tipa americana, per metà di origini greche e per metà italiane. Voleva costruire un villaggio ecosostenibile o qualcosa del genere in un appezzamento di terra non lontano da Inhambane, che neppure era vicino al mare: a due passi c'è l'incredibile spiaggia di Tofu, dove mi fermai per un paio di giorni. Era anche musicista, e questo è un video con lei che, in Mali, suona con musicisti di Kora... ma passiamo oltre,che al solito sto divagando.

Si era dunque lungo la strada quando fummo fermati da poliziotti in impeccabile divisa bianca. La portoghese fu tostissima e non pagò nulla. Io ero seduto nel sedile posteriore dell'auto e filmai quasi tutto. Son tre brevissimi video, e l'ultimo si conclude coun un mio commento, in inglese.

E non si dica che, sulla corruzione, non faccio ricerca sul campo.






domenica 15 marzo 2020

Sfumature virali


Gira, "virale", l'hashtag "Andrà tutto bene". Per esempio, nel sito del Ministero della Difesa, col due giugno delle Frecce Tricolori: l'Italia capace, organizzata, estrosa.

Secondo Altan invece - rubo da La Repubblica - "ce la faremo". Che è molto diverso da "andrà tutto bene".

Non andrà tutto bene: lo sa chi abbia un po' di sale in zucca. Nella migliore delle ipotesi ne usciremo con le ossa ancor più rotte di ora. E invece penso che sì, è vero che "ce la faremo", perché in qualche modo ce l'abbiamo sempre fatta, e in questo particolare senso e sfumatura, ho fiducia di questa cosa che chiamiamo Italia.

Sfumature diverse di intendere non solo il problema attuale ma, forse e indirettamente, appunto che cosa sia, questa Italia.

Il falso "Andrà tutto bene" è già virale, retorico e tronfio. "Ce la faremo (e se no, ce la faremo)", di quella retorica è il controcanto. Controcanto antiretorico che, qua da noi, fortunatamente non è mai mancato.




To Do List



Cose da fare per fuggire, prima a livello mentale e poi si vedrà:

- Finire la bozza del 2o capitolo di "Rethinking Corruption", e se va per le lunghe (come andrà) iniziare, il terzo, il quarto, eccetera.

- Approfondire il Bellingcat's Online Investigation Toolkit, e qualche tutorial di Bellingcat.

- Finire di leggere Conversación en La Catedral di Vargas Losa.

- Identificare meglio il sentiero che da Bologna porta, in soli tre giorni, sino al crinale. Passando per: Parco Talon, Prati di Mugnano, attraversamento del Setta, Monte Sole. Poi non chiaro se convenga rimanere su quel lato della valle, sino a oltre Porretta (per attraversare di notte Pracchia), o attraversare il Reno e buttarsi sul contrafforte di nord-ovest. Tenda leggera, camminate notturne per evitare le guardie.

- Fare simulazione zaino: tenda "preservativo" da 960g., già pronta, più una settimana di viveri.

- Tentare di non finire sui giornali.

In questo periodo sono un vulcano d'idee.

venerdì 6 marzo 2020

Megaturismo ai tempi del coronavirus

Foto di centri monumentali deserti: le grandi capitali di Megaturismo sono quasi vuote.

E il Yogi Berra Effect: “Nobody goes to that restaurant anymore because it's too crowded.”

E' il momento di uscire dalle periferie e di andare verso il centro. In pochi, mi raccomando, e in ordine sparso. E non seguite il mio consiglio, che altrimenti non funziona.

Saluti da una grande capitale del Megaturismo - the time is now.

(appunti su Megaturismo).

giovedì 5 marzo 2020

Topi bolognesi colpevoli di frode scientifica



[Nota, gennaio 2021: sul tema, una mia lezione all'università di Bologna]

Il giornalista scientifico Leonid Schneider "la tocca piano" con la mia università di Bologna:

Bologna mice guilty of research misconduct, di Leonid Schneider. 4 marzo 2020.

Non entro nel merito delle accuse rivolte alla Prof.ssa Elisabetta Ciani. Mi occupo solo della mia Università. Di queste vicende mi interessa sempre, e solo, l'aspetto istituzionale.

Se capisco bene, si accusa il Prof. Francesco Ubertini (tra l'altro) di aver mentito, col fine di non perdere un finanziamento da Telethon. Una lettera a sua firma pubblicata nell'articolo sopra citato, se autentica, mi pare devastante, come del resto sottolineato dal commento proposto per la medesima:

"The rector did not refer to any of the allegations originally delivered to the university by the whistleblowers. He was falsely reassuring external bodies and hiding the scale of the problem. Instead, he was very active in contacting different institutions and reassuring them that the ongoing case was nothing serious, by twisting and selectively representing the statements of the investigative commission."

Ero a conoscenza di questo caso. Da quando fui coinvolto nel "caso Lorenzini" e in seguito all'esposizione mediatica che ne seguì, ricevo lettere e documenti da parte di colleghi che, in tutta evidenza, non si fidano dell'Università di Bologna e del suo Rettore. L'1 giugno 2018 formulai al Rettore delle domande puntuali su come era stata gestita la vicenda che vedeva coinvolto il laboratorio diretto dalla Prof.ssa Elisabetta Ciani. La risposta - a firma prorettrice Prof.ssa Chiara Elefante e prorettore Prof. Antonino Rotolo è qui sotto. 

Alla luce dei documenti resi pubblici dal Dr. Schneider, mi pare vi siano elementi per sospettare che si è in presenza di un tentativo, da parte dell'Università di Bologna, di ingannare sia dentro (Nucleo di valutazione incluso!) sia, soprattutto, fuori. Questo, in attesa di una voce autorevole che metta in fila le cose - eventualmente, dichiarando che i documenti pubblicati da Schneider sono falsi, o che convinca che l'interpretazione corretta è altra. 

Con l'auspicio, gentile Rettore Prof. Francesco Ubertini, che in questa occasione il chiarimento non lo firmino i suoi generosi prorettori, ma lei: come con Fondazione Telethon, se non sbaglio.





martedì 3 marzo 2020

L'Asia del Sud-Est



Per andare in Asia si parte da Istanbul, anzi si dice che Constantinopoli è la porta dell'Asia. Gente che pesca, e tanti pasticcini in vetrine, così è quella città di cui tanto si è scritto ma senza andare al sodo, come sto facendo io con solo due foto.



L'Asia vera è un'altra cosa. Sono essenzialmente i fili. Questi sono fili a nord di Bangkok. In basso si vede una piccola stazione del treno.



Il treno tardava e c'era chi lavorava sui binari, mentre il sole saliva e con lui il caldo, quel misto di caldo e stanchezza di ti prende quando hai passato la notte in aereo.



Ayutthaya fu la capitale di un regno sino a quando non fu abbandonata in favore di Bangkok.



Principalmente viaggio per visitare i turisti, oltre che i luoghi che visitano i turisti. E' tutto un gioco di sponda.



Nakhon Ratchasima, stuzzichini in vendita nell'area di un tempio. Non li ho mangiati.



Stesso luogo, un ballerino.



Basti l'immagine qui sotto come sintesi della quantità enorme di statue che si trovano nel sud-est dell'Asia. Ne producono a bizzeffe.



Una scolaresca a Pimai, che è un bel luogo Khmer.



L'incrocio dove c'è un signore, mezzo steso su una panchina, che ti chiede dove devi andare. Lui osserva gli autobus che arrivano, e se fa al tuo caso te lo ferma. Come faccia a riconoscerli è un mistero. Se non un dottorato in autobusologia, almeno un master quello ce l'ha.



Poi il treno, sino al confine col Laos.



Qui a Vientiane, la capitale del Laos, che è una città tranquilla e gradevole sul Mekong.



Sul Mekong si pesca e io non sono uno che si tira indietro.



I lavori al tempio.



Anche in Laos ci sono tanti fili.



Questo arco di trionfo, a Vientiane, ha una storia curiosa che vi risparmio.



Il centro di documentazione sulle mine anti-uomo è agghiacciante. Questa scultura è saldata con pezzi di bomba. Gli americani bombardarono il Laos in ogni modo possibile.



I cinesi sono molto presenti in Laos. Questo sarà un ospedale.



Vang Vieng. In lontananza, le solite montagne con quella forma che si trova in Asia.



A Luang Prabang mi sono piaciuti questi semplici mosaici, che se ricordo bene risalgono agli anni '50.



Il Mekong e la sua gente sono sempre belli da guardare.



Dei bambini facevano il bagno. Non è proprio il Mekong, ma un affluente che vi si sta buttando.



Io in certi casi non riesco ad essere da meno. Proprio non riesco.



Siccome prevedo di non riuscirci, neppure ci provo ad essere da meno e mi butto subito. Anche un anno fa ho fatto il bagno nel Mekong, ma molto più a valle, in Cambogia.



Vedete il grande masso in fondo? Ecco, era lì che ho nuotato. A due bracciate dalla confluenza col Mekong, che è il fiume in fondo. Dove non mi sono avventurato, perché mi è parso eccessivo (ci vuole misura nelle cose).



Mi piace spiare i monaci.



Luang Prabang è molto turistica. Verso sera si va su una collina per fotografare il tramonto. Io mi ci sono trovato per caso e ho fotografato i fotografi. Davanti:



E anche dietro.



Il simbolo regale in Laos sono tre elefanti sotto un ombrello. Lo trovo molto elegante.



Cerco di non dirlo in giro, ma spesso fotografo i cessi.



Subito prima che gli rubassi la palla. No scherzo. Davvero, non l'ho fatto.



Vorrei ripeterla sta cosa: la palla ce l'hanno ancora. E se non ce l'hanno sarà che gliel'ha presa un altro. Cambiando discorso. Anzi, capitolo: Vietnam. Da Luang Prabang al confine il viaggio è stato stancante ma anche molto bello il panorama di montagna.

Prima città dopo il confine è Dien Ben Phu, l'Adua dei francesi: qui nel 1954 furono sconfitti irrimediabilmente dai vietnamiti, guidati dal Generale Giap. Abbandonarono la partita in mano degli americani, ai quali anche non andò benissimo.

Questi ragazzi stavano cercando di sensibilizzare il prossimo a tener pulito, con esito imperfetto.



Erano i giorni del Tet. Bruciare soldi (finti) porta fortuna.



Baguette, pasticceria e caffé. I francesi qua han fatto anche cose buone.



Avrei bisogno di troppo tempo per descrivere l'impressione che ho ricevuto visitando il cimitero di guerra, il museo di guerra, e le fortificazioni di guerra.



Almeno una volta, Ho-Chi-Minh bisogna mostrarlo, considerato anche che qua lo si trova dappertutto.



Fanno casette in uno stile che mi pare un incrocio tra il neoclassico e il postmoderno. Questo è un esempio, non tra i peggiori.



Ci sono tante piante di mandarini. Sono molto amari (ho assaggiato). Secondo me si potrebbe fare una buona marmellata, come si fa con le arance di Sevilla.



Dall'alto di una delle fortificazioni (che il generale francese aveva chiamato ciascuna con il nome di una sua "amica": doveva essere uno veramente fuori di testa) si vedono le risaie.



Un passaggio al mercato, prima di un bus notturno per Hanoi.



Ad Hanoi c'è molta architettura coloniale, ad iniziare dalla cattedrale.



Vari stili, Deco incluso.



I marchi sono arrivati mi pare tutti. La bandiera rossa con la stella gialla è rimasta.



I progetti di vita qua sono dei più vari.



Questo era il bunker del quartiere generale durante la guerra. Il posto del Giap.



Il mausoleo di Ho-Chi-Minh ha una sua forza.



E' fotografato.



Su più livelli.



In fondo alla città c'è il fiume, desolato, ed è un piccolo mondo di barche dove vive della gente.



Treno notturno, e un capitolo a parte si potrebbe aprire sulle stazioni. Qui sotto, la stazione di Hué, che sta circa a metà del Vietnam.



Quando un romagnolo incontra un pedalò, si mette sull'attenti e se riesce prende nota.



Hanno una loro grazia, queste due creature volanti in riva al fiume che taglia in due Hué.



La reggia di Hué è bella.



Trovo che il Vietnam abbia una bandiera molto azzeccata.



Anche qua si gioca a bocce, o petanque, fate voi.



A volte son le costruzioni brutte a colpirti.



Altra città, lungo la costa. Si chiama Da Nang. Un esempio di sincretismo religioso spinto (e qua frequente).



Un Budda sorridente mette sempre allegria.



La cattedrale di Da Nang sovrastata da un grattacielo.



Dietro, forse, l'oratorio.



Ci sono un paio di ponti arditi.



In un bel museo dedicato ai Cham c'è questa stupenda Apsara dell'XI secolo. Mi sono incantato a guardarla.



Questa foto può apparire insignificante. E' My son. Mostra che i Cham, che mi stavano molto simpatici, non sapevano però costruire un arco.



Verso Hoi An. Anche qua nelle barche disegnano gli occhi come da noi.



Non soltanto nelle barche, ma anche nelle barchette.



Questo è il ponte giapponese di Hoi An. Per attraversarlo si deve pagare. Fine della storia su Hoi An, dalla quale è meglio fuggire.



Prima di fuggire, si faccia un giro attorno, via dalla folla.



Perché altrimenti, la scena è di questo tipo.



Si incontra gente con le idee molto chiare.



Bus lusso. L'unico.



Il luogo del massacro di Son My (o My Lai).



Questo soldato americano si sparò in un piede per non partecipare al massacro di civili inermi. Fu uno dei pochissimi ad uscirne bene.



Una pompa a pedali.



L'oceano.



Più a sud, questa è Quy Nhon. Una gradevole città di mare. Ha un "Beach Hotel".



Gente rilassata se ne trova sempre.



I fili. Un po' mi ossessionano.



In spiaggia si corre benissimo.



Ultima tappa in Vietnam è stata Saigon. L'avevo visitata l'anno scorso e mi piace. Questa volta era molto meno trafficata, per via delle festività del Tet.



Un cantiere riassume bene Saigon di questi tempi.



In Vietnam i musei sulla guerra sono sempre interessanti. Il titolo di quest'aquerello, del 1967, è "Wishing found warhead would kill the enemies"



Il monastero buddista da cui partì Thích Quảng Đức. Una vicenda che ha un ruolo anche in American Pastoral di Philip Roth (sul quale ha ragione D*: meritava il Nobel, certo che lo meritava).




Il viaggio ha disegnato una grande "U" rovesciata. L'ultima tappa è stato un ritorno a Bangkok, in aereo da Saigon.
Visitai Bangkok quasi dieci anni fa e vi sono tornato volentieri.

Ho rivisto volentieri gli infiniti dipinti che raffigurano una variante del Ramajana col suo esercito di scimmie.


Ho colto l'occasione per alcune ultime foto molto significative, come questa.


Sono anche tornato volentieri a navigare il Chao Phraya - è semplice: c'è una barca autobus, un vaporetto insomma.


Le stazioni ferroviarie mi attraggono sempre, forse perché spesso vi si incontra gente interessante.


Questo piccolo tempio di scimmie mi ha molto incuriosito e l'ho osservato a lungo.



Avevo anche un'altra foto da proporre: un gruppo di monaci, di schiena, davanti a un Buddha. Arancione e oro: davvero una bella cartolina. Poi ho pensato, ma no, meglio chiudere con un paio di scimmie, per non rovinare tutto.