venerdì 17 febbraio 2012
Finmeccanica e la politica estera
E' di ieri la notizia che Israele ha scelto di comprare una trentina di Alenia-Aermacchi M346 per addestrare i suoi piloti da combattimento. La decisione (che dovrà essere ratificata e perfezionata) chiude a vantaggio di Finmeccanica, e dell'Italia, una lunga contesa con la Corea, produttrice dell'aereo concorrente.
La borsa sta premiando Finmeccanica con un rialzo del titolo che, al momento, è dell'ordine del 16%. Il mercato, seguendo gli analisti, considera che il successo in Israele avvantaggi Finmeccanica nella futura "gara della gare", per vendere agli Stati Uniti i suoi prossimi addestratori - si parla di trecento esemplari, con contratti che si protrarranno per decenni.
Per convincere gli israeliani a sceglierci, il governo italiano si è accordato per acquisti di armamenti israeliani in compensazione, per un valore, pare di capire, pari al costo degli aerei - circa un miliardo di dollari. Con questo doppio legame e con l'approfondimento della collaborazione militare, Israele compra (o scambia) non soltanto delle armi, ma in qualche misura anche un nostro orientamento in politica estera - da Tel Aviv, alla Palestina, a Teheran.
E' un esito in un processo che viene da lontano. La Finmeccanica di Guarguaglini perseguì la strategia dei "tre mercati domestici": USA, UK, e Italia, coronata, nel 2008, con l'acquisto della statunitense DRS Technologies, che da sola vale quasi il 20% del fatturato consolidato del gruppo. Negli anni precendenti, del resto, l'Italia aveva scelto di non partecipare allo sviluppo dell'Airbus A400M, puntando sul J27 Spartan, compatibile con l'Hercules C-130 - nuovamente, una strategia "atlantica". Nel 2003 appoggiammo gli USA in Iraq, non certo a causa di Finmeccanica ma, senz'altro, all'interno di un certo orientamento complessivo nella nostra politica estera (e militare-industriale, aggiungo io) che, secondo il mio amico Osvaldo Croci, è sostanzialmente costante nel tempo (*).
Finmeccanica, che è in crisi, è uno dei pochi "campioni nazionali" rimasti. Il lungo processo di deindustrializazione, che si è approfondito in questi ultimi anni di crisi, toglie ulteriori gradi di libertà alle politiche industriali nazionali: vogliamo perdere anche Finmeccanica? E, rivoltanto la medaglia, approfondisce il solco dentro al quale si muove la nostra politica estera.
In questa cornice dovremmo porre il dibattito sull'acquisto degli F-35. Dal punto di vista delle esigenze di difesa, se ne poteva fare a meno (con l'esclusione della variante a decollo verticale per la Cavour): si spieghi agli italiani in quale scenario c'è bisogno degli F35. Ma ha ragione Valerio Briani (su Affari Internazionali) quando afferma che ci vorrebbe più maturità nel considerare il procurement militare. Per primo, perché "un dibattito trasparente ed informato non potrebbe che migliorare la qualità delle scelte in materia di armamenti, a volte discutibili e comunque assunte quasi sempre nella completa inconsapevolezza da parte dell’opinione pubblica e a volte, purtroppo, anche della classe politica. Come disse anni fa un (allora) membro della Commissione Difesa del Senato, “se i militari venissero a chiederci delle mongolfiere per la difesa antimissile, noi compreremmo le mongolfiere”.
Inoltre, aggiungo io, perché Finmeccanica è un pezzo della storia lunga del capitalismo italiano, che nacque e si sviluppò legato a filo doppio allo stato e anche alle commesse militari. Tutto questo si può cambiare, e magari si deve. Ma allora riconosciamo che, quando parliamo di F-35, in realtà stiamo parlando d'altro.
(*) Croci, O. (2004). "La fine del consenso bipartisan? La politica estera italiana e la guerra in Iraq" in Vincent Della Sala and Sergio Fabbrini (eds.), Politica in Italia. I fatti dell'anno e le interpretazioni. Edizione 2004. Bologna: Il Mulino, pp. 125-144.
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